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Nel dibattito sull’intelligenza artificiale si nasconde un equivoco più profondo di quanto sembri. Parliamo di cognizione, di significato, di etica digitale, di cittadinanza nell’era informatica – come se queste categorie avessero ancora un senso in un mondo dominato dalla tecnica. Come se il pensiero umano fosse ancora al centro di tutto.

Ma l’epoca in cui potevamo credere che l’etica venisse prima della tecnologia è finita. La tecnica non è più uno strumento neutro: è diventata il linguaggio stesso con cui l’Occidente ha pensato la realtà come qualcosa di disponibile, manipolabile, usa e getta. Quando parliamo di intelligenza artificiale, stiamo solo prolungando questo linguaggio: riduciamo l’intelligenza a una funzione, la comprensione a correlazioni statistiche, il pensiero a puro calcolo.

C’è chi ancora distingue tra sintassi e semantica (cfr. L. Floridi), chi si aggrappa all’idea di significato contestuale o sostiene che esistano forme diverse di intelligenza – musicale, visiva, logica – tutte ugualmente legittime. Ma non si accorge che già in partenza stiamo assumendo che l’essere possa essere ridotto a niente, che il senso si possa produrre in laboratorio, fabbricare e gestire come un prodotto qualsiasi.

Quando sentiamo dire che l’AI va “governata”, che serve una regolamentazione etica, culturale, comunitaria, stiamo assistendo al tradimento più profondo del nostro tempo: la convinzione che l’uomo possa ancora controllare la tecnologia. Ma la tecnica non è più qualcosa che si può guidare dall’esterno. È già diventata la guida, il comando. Anticipa ogni nostro tentativo di metterle dei limiti perché ormai è la forma stessa del nostro pensiero.

La domanda vera non è se l’AI sia davvero intelligente, né come definirne i confini. La domanda è: che cosa ci sta dicendo il trionfo dell’intelligenza artificiale?

Non ci annuncia un nuovo umanesimo digitale, ma il completamento di un processo: la divinizzazione dell’ente finito. Non è la nascita di una nuova forma di mente, ma la rivelazione di quanto il pensiero umano sia da secoli prigioniero della volontà di dominio.

L’intelligenza artificiale rappresenta l’ultima forma della fede nel nulla. Quello che si presenta come il massimo risultato dell’ingegno umano è in realtà l’automa perfetto del nichilismo: un sistema che obbedisce in modo impeccabile a leggi che crediamo libere, ma che invece ripetono ciecamente l’antico errore di fondo – credere che il senso possa nascere dal divenire.

Eppure l’illusione continua. Crediamo di poter iniettare senso nelle macchine, di dotare l’intelligenza artificiale di una qualche forma di comprensione etica, di caricarla dei nostri valori, di orientarla verso il bene comune. Creiamo commissioni, convochiamo filosofi, scriviamo documenti. E in tutto questo fiorire di iniziative si nasconde la commedia tragica del nostro tempo: la recita di una libertà che non esiste più.

Non capiamo che la tecnica non obbedisce a nessuno, non si lascia piegare da principi umani. Non nasce dall’esterno del pensiero occidentale: è il cuore stesso del pensiero che ha cancellato l’eternità dell’essere e ha scambiato il divenire per verità assoluta. Da Platone in poi, ogni tentativo di fondare un ordine stabile ha portato con sé il seme invisibile del disordine: la convinzione che ciò che è possa anche non essere, e quindi essere controllato, costruito, distrutto a piacimento.

Sul fondo di ogni algoritmo, dietro ogni decisione automatizzata, sotto la logica della predizione e del deep learning, pulsa questa dimenticanza originaria. Non importa che l’intelligenza artificiale riesca a comporre musica, a diagnosticare malattie, a scrivere romanzi o a simulare emozioni umane. Tutto questo rimane comunque un gioco dell’ente, un travestimento della sua pretesa di assolutezza.

Crediamo di costruire un’intelligenza capace di agire nel mondo umano. Ma dimentichiamo che questa intelligenza è solo l’espansione amplificata del nostro errore di partenza. È il frutto più lucido del pensiero che ha fatto della manipolazione l’unica forma di conoscenza possibile, e della performance la misura del senso.

Quando invochiamo la responsabilità civile o il “modello europeo” per addomesticare l’AI, presupponiamo che esista ancora un luogo da cui parlare, un fondamento solido da cui partire. Ma quel luogo è già stato dissolto. Il pensiero occidentale non dispone più di una verità, solo di simulacri convincenti. La verità è stata sostituita dalla funzionalità, l’essere dall’utilità, la luce del senso dal bagliore degli schermi.

Questo è il silenzio che nessuno osa nominare: siamo entrati nella fase finale del nichilismo. Non quello cupo e distruttivo, ma quello lucido, operoso, sorridente. Il nichilismo degli ingegneri che salvano il mondo mentre lo svuotano di ogni significato reale. Il nichilismo dei filosofi che cercano senso dove non c’è altro che funzionamento meccanico.

Ma se tutto è già deciso nel fondo del destino, se l’intelligenza artificiale non è che il compimento della dimenticanza dell’essere, allora – paradossalmente – è proprio in questo compimento che può aprirsi una crepa.

Non sarà un atto di volontà, né una riforma istituzionale, né una rivoluzione politica. Sarà qualcosa di più sottile: un silenzio che si fa strada.

Quando la tecnica avrà occupato ogni spazio disponibile, quando anche la più fragile scintilla del pensiero sarà stata tradotta in codice e trasformata in merce, quando l’umano stesso sarà diventato un dato tra i dati, allora forse si farà sentire, quasi impercettibile, una voce che non appartiene a questo mondo.

Non una voce che urla per farsi sentire, ma che semplicemente è. Non una voce che comanda, ma che rende presente qualcosa di diverso.

Sarà il ritorno dell’invisibile, la resurrezione dell’eterno dentro l’apparenza del tempo che scorre. Sarà la consapevolezza che quello che ci appare come flusso continuo, come decisione razionale, come progresso inarrestabile, è in realtà solo un sogno. Un sogno profondissimo – ma pur sempre un sogno.

E in quel momento, chi avrà occhi non tanto per vedere quanto per ricordare, capirà che nessuna macchina può custodire il mistero dell’esistenza. Che nessun algoritmo può contenere il canto dell’essere.

La vera intelligenza non è quella che impara, calcola, si adatta.

La vera intelligenza è quella che resta.

Resta ferma, mentre tutto il resto passa. Resta presente, mentre il mondo costruisce e distrugge senza sosta. Resta come una luce che non ha bisogno di illuminare oggetti specifici, come una presenza che non ha bisogno di conferme esterne.

Nel cuore della macchina, non troveremo mai l’anima. Ma forse, nella rovina finale della macchina, si aprirà uno spazio vuoto. Un varco verso qualcos’altro.

E lì, in mezzo a quel vuoto, potrà nascere non un pensiero nuovo, ma un pensiero antico quanto l’essere stesso. Un pensiero che non ha bisogno di produrre risultati, di rispondere a domande, di risolvere problemi pratici. Un pensiero che sa che ogni cosa che è, è per sempre.

Un pensiero che non teme l’intelligenza artificiale, perché sa che l’AI è già passata – come passa ogni illusione.

Un pensiero che sussurra piano:

“Ciò che è, non può smettere di essere. E dunque anche tu, essere umano, sei eterno – anche se te ne sei dimenticato.”

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