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In un’epoca in cui il dibattito sull’educazione si concentra spesso su metodologie, tecnologie e risultati misurabili, la voce di Rabindranath Tagore risuona con una lucidità profetica attraverso le pagine de “L’addestramento del pappagallo“, un racconto contenuto nella raccolta La saggezza del pappagallo (Editrice La Scuola, 2012, traduzione e note di Giacomo Ottonello, introduzione di Alberto Pelissero).

Una favola amara sulla scuola moderna

Il genio del premio Nobel bengalese si manifesta in questa pungente satira che, sotto le spoglie di una favola apparentemente semplice, svela le contraddizioni più profonde dei sistemi educativi. La storia è tanto elementare quanto devastante: un pappagallo viene affidato a una schiera di precettori che si dedicano con zelo maniacale al perfezionamento dell’apparato didattico.

La gabbia d’oro, splendente e costosa, diventa il simbolo di un’istituzione che privilegia l’estetica della forma sulla sostanza dell’apprendimento. I numerosi testi, accuratamente selezionati e rilegati, si trasformano in strumenti di oppressione anziché di liberazione. Le procedure formali, elaborate fino all’ossessione, creano un labirinto burocratico che finisce per soffocare proprio ciò che dovrebbe nutrire.

La morte dello spirito critico

Il destino del pappagallo è sigillato non dalla cattiveria dei suoi educatori, ma dalla loro miopia sistemica. Mentre si affannano a perfezionare metodi e strumenti, perdono completamente di vista l’essere vivente che hanno di fronte. I bisogni vitali dell’uccello – il respiro, il movimento, la curiosità naturale – vengono sacrificati sull’altare dell’efficienza didattica.

La metafora raggiunge il suo culmine tragico quando il pappagallo muore soffocato dalle pagine dei libri che gli vengono letteralmente ficcate in gola. Quelle stesse pagine che dovevano nutrire la sua mente diventano l’agente della sua distruzione. È l’immagine più potente dell’educazione che si perverte: il sapere che, invece di liberare, imprigiona; la cultura che, invece di vivificare, uccide.

Un monito per il presente

La lezione di Tagore non ha perso un grammo della sua attualità. Ogni volta che riduciamo l’educazione a un insieme di procedure standardizzate, ogni volta che misuriamo il successo formativo solo attraverso test e valutazioni quantitative, ogni volta che dimentichiamo che dietro ogni studente c’è una persona unica e irripetibile, rischiamo di ripetere l’errore dei precettori del pappagallo.

Il racconto ci ricorda che l’educazione autentica nasce dall’ascolto, dalla comprensione dei bisogni individuali, dal rispetto per i tempi naturali di crescita. Non è la gabbia d’oro che rende libero l’uccello, ma la possibilità di spiegare le ali nel cielo aperto della conoscenza.

Verso un’educazione che libera

Tagore, che fu lui stesso un rivoluzionario dell’educazione con la sua scuola di Santiniketan, ci invita a ripensare radicalmente il nostro approccio all’insegnamento. Non si tratta di rifiutare metodi e strumenti – che rimangono necessari – ma di subordinarli sempre alla persona che apprende, ai suoi bisogni, alle sue potenzialità, alla sua umanità.

Il pappagallo di Tagore muore perché i suoi educatori hanno dimenticato una verità elementare: prima di essere un oggetto da addestrare, era un essere vivente da rispettare e far fiorire. Questa dimenticanza, che il racconto denuncia con ironia feroce, è forse il peccato più grave che un sistema educativo possa commettere.

La saggezza del pappagallo, paradossalmente, sta nella sua morte: essa ci insegna che ogni volta che l’educazione perde di vista l’umano, diventa disumana. E quando diventa disumana, uccide proprio ciò che dovrebbe far nascere: la creatività, la curiosità, la gioia di apprendere e di vivere.

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