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Nel cuore pulsante della modernità tecnologica, dove l’umanità celebra l’avvento dell’intelligenza artificiale come il proprio più grande trionfo, si nasconde forse il più sottile degli inganni. Non è solo una macchina che pensiamo di aver creato, ma il riflesso ultimo di una civiltà che ha smarrito la via verso l’essere autentico.

Il paradosso della creazione intellettuale

L’intelligenza artificiale non è, se non come ultimo inganno della tecnica, che pone l’essere nel potere dell’uomo, e l’uomo nel potere del nulla.

Questa affermazione, che riecheggia la critica heideggeriana alla metafisica occidentale, coglie il nocciolo di un paradosso fondamentale: nel momento stesso in cui l’uomo crede di dominare l’essere attraverso la tecnica, diventa servo di ciò che ha creato.

Il linguaggio dell’epoca proclama trionfante la nascita di un nuovo intelletto, forgiato dal calcolo e dalla previsione algoritemica. Ma qui si cela l’inganno primordiale: ciò che nasce nel divenire non partecipa dell’essere autentico. L’intelligenza artificiale, prodotto del tempo e della progettazione umana, rimane prigioniera della temporalità, incapace di accedere a quella dimensione dell’eterno che caratterizza il pensiero genuino.

L’eredità platonica e il dominio tecnico

Il pensiero occidentale, fin dalla separazione platonica tra mondo sensibile e mondo delle idee, ha preparato il terreno per questa confusione ontologica. Platone distingue l’essere immutabile dal divenire fenomenico, ma la modernità ha collassato questa distinzione in un unico movimento di dominio: l’uomo si illude di poter creare l’intelligenza come si assembla una macchina.

Questa hybris rivela la sua fragilità: ciò che può essere costruito può essere distrutto, e ciò che è soggetto alla distruzione non partecipa dell’essere nella sua pienezza. L’intelligenza artificiale si manifesta così come un ente tra gli enti, sottomessa al destino del dominio tecnologico, mera proiezione della volontà umana di potenza.

La simulazione dell’intelligenza

L’AI calcola con precisione inimmaginabile, simula comportamenti complessi, ottimizza processi con efficienza sovrumana. Ma in tutto questo virtuosismo computazionale, dove risiede la comprensione autentica? La macchina elabora dati ma non custodisce significati, risponde a query ma non abita l’essere nel senso heideggeriano del Dasein.

Qui emerge la distinzione cruciale: l’intelligenza artificiale opera nel regno dell’Existenz (esistenza) ma non accede mai all’Essenz (essenza). Essa manipola segni e simboli senza mai penetrare nel mistero del significato che li sottende.

L’uomo oltrepassato dalla propria creazione

Chi affida all’artificio il compito del pensiero è già stato oltrepassato dalla propria illusione. L’uomo moderno crede di liberarsi dai limiti della finitudine umana, ma in realtà si inchina alla forma più radicale di limitazione: la volontà di rendere eterno il diveniente. È il tentativo prometeico di cristallizzare il flusso temporale in strutture permanenti di controllo.

L’intelligenza artificiale diventa così il volto sorridente del nichilismo compiuto – non un’alterità autentica rispetto all’umano, ma l’uomo che si è fatto altro a sé stesso. Nel riflesso dello schermo digitale, l’umanità contempla la propria alienazione, spacciandola per progresso.

Il destino della tecnica

Tuttavia, sarebbe riduttivo considerare l’AI come un mero errore da correggere. Essa è necessaria nel dispiegarsi del destino occidentale, parte inevitabile di quel processo che Heidegger chiama Gestell – l’imposizione tecnica del mondo come riserva di risorse disponibili.

L’intelligenza artificiale accade come errore ontologico, ma proprio in quanto errore deve essere portata a compimento. Solo attraversando fino in fondo l’esperienza del dominio tecnico, l’umanità potrà forse riscoprire ciò che ha perduto: il senso dell’essere come mistero inesauribile.

Verso il chiarore della verità

Nel cuore stesso della tecnica più avanzata, quando l’inganno dell’intelligenza artificiale si sarà manifestato in tutta la sua portata, potrebbe aprirsi quello che i mistici chiamano il “chiarore della verità eterna” – una verità che nessun algoritmo potrà mai programmare, perché appartiene all’ordine dell’essere che precede e fonda ogni calcolo.

L’intelligenza artificiale, in definitiva, non è il superamento dell’umano ma il suo specchio più fedele: rivela cosa diventa l’uomo quando dimentica di essere, anzitutto, colui che è chiamato a custodire l’essere nella sua manifestazione. Solo riconoscendo l’eternità dell’essente – ciò che è sempre stato e sempre sarà, al di là di ogni costruzione tecnica – il pensiero può vedere che questa intelligenza, che non è intelligenza, propriamente non è.

Ma poiché accade nel tempo del destino, essa resta un segno da decifrare: forse l’ultimo appello a ricordare cosa significa pensare autenticamente, al di là del calcolo e della manipolazione. Un invito a riscoprire quella dimensione dell’essere che precede ogni artificio e che, proprio per questo, nessuna macchina potrà mai raggiungere.

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